“Servono aiuti, subito”

10 anni fa l’alluvione che colpì il Canavese: acqua, fango, frane e dolore.
Di alluvioni ne avevo già viste due, quella del ’93 e quella del ’94. Ma l’alluvione del 2000 fu  un’altra cosa. Vissuta ora per ora, attraverso il lavoro di Rete Canavese.
Da quel maledetto 14 ottobre un cui iniziò tutto.
La ricordo quell’alluvione. Ricordo quel caldo innaturale alle prime ore del mattino di quel sabato 14 ottobre, che significava temperature alte anche in quota e rischio di scioglimento della neve. Fu proprio così: la pioggia abbondante si unì alla neve trasformata in acqua e fu il disastro. Lo fu in molte zone, ma in Canavese lo fu soprattutto per le vallate alpine dell’Orco e del Soana e per l’area dell’eporediese.
Fu emergenza in tutto e per tutto. La viabilità, le frane, le case crollate, le esondazioni, il fango: Ovunque.
E le comunicazioni.
Impossibile nelle prime giornate avere notizie certe proprio a causa delle comunicazioni telefoniche interrotte e per l’assenza, o comunque la carenza, dei collegamenti radio.
E in quella emergenza c’era anche il nostro lavoro.
Le forze erano ridotte davvero all’osso. A quel tempo la televisione contava su tre operatori: uno era alluvionato a Salerano, con l’acqua al primo piano della casa. Il secondo era bloccato a Torino. Rimaneva Alex che da Mazzè non aveva problemi a raggiungere la sede della tv a Castellamonte. Peraltro senza collegamenti telefonici per alcuni giorni dopo il 15 ottobre. Rimanevano i cellulari e tanta buona volontà. Ore di trasmissione in diretta, ore di servizi esterni e poi i montaggi, gli aggiornamenti continui.
Non c’erano altre notizie in quei giorni. Il telegiornale era diventato l’alluvione: acqua, fango, frane e dolore.
In molti se li ricordano ancora quei telegiornali e me lo dicono. Io li ricordo con l’orgoglio di avere cercato di proporre un servizio utile, il più possibile tempestivo, nel caos di quelle giornate.
L’area del Ponte Vecchio di Cuorgnè venne individuata come base d’appoggio per il coordinamento degli aiuti. Pomposamente venne chiamata Sala Com ma, come abbiamo imparato più tardi, il Coordinamento è ben altra cosa. Lì andavano e venivano dalla valle gli elicotteri, a cercare di portare aiuto senza avere bene un’idea precisa di dove andare.
In quel momento si sviluppò l’idea della Protezione Civile così come la conosciamo adesso: attrezzata e preparata per intervenire nel minor tempo possibile e nella maniera più efficace possibile.
Tutte le regioni sono passate da quella strada: dopo una tragedia si sono costruite le basi per costituire gruppi di Protezione civile. Lo sta facendo anche l’Abruzzo dopo il terremoto dello scorso anno.
L’alluvione del 1994 causò in Piemonte 64 vittime. Fortunatamente l’alluvione del 2000 non ne causò direttamente nessuna.
Ma l’entità di un fenomeno naturale così sconvolgente non si misura solamente dal numero di vittime. Si misura anche da quanto un territorio è stato lesionato, quanti danni ha provocato e se questi danni sono in qualche modo riparabili.
Certo la gente si è rimboccata subito le maniche e gli aiuti dei volontari sono arrivati tempestivamente. Ma in quei casi ci vuole altro. Serve lo Stato e serve organizzazione e servono finanziamenti.
Di quella alluvione ricordo le persone che piangevano durante le interviste. Ricordo le persone che non volevano o non riuscivano a parlare, ma che di cose da dire ne avrebbero avute.
Ricordo una squadra affiatata di Sindaci dell’eporediese che è un peccato avere perso, guidata da Elio Ottino di Salerano, Walter Catozzi di Pavone e Antonio Nigro “Bisonte” di Vidracco. Ottino, il Sindaco che si trasformò in “primo volontario” del suo comune, riuscì a commuoversi durante una intervista, parlando degli aiuti ricevuti  da un gruppo di persone venute da lontano. Perché l’unico aspetto positivo delle tragedie provocate da eventi naturali è quello di fare conoscere ed unire le persone. E farle crescere.
Ricordo il Sindaco di Locana, Albino Bellino.
In una intervista disse: «Servono aiuti, subito. Se non ci danno aiuti subito, possiamo chiudere la valle a Pont.» Lo diceva con una infinita tristezza e con la speranza di dare ancora un futuro a quelle valli, già minate dallo spopolamento e dalla crisi industriale.

Mario Damasio

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