Domenico Tappero Merlo: “Sono ripartito dalle mie radici”

Domenico Tappero Merlo

PAVONE – “Sono ripartito dalle mie radici”. Le radici sono la sua terra, il Canavese, dove è nato nel 1956, da una famiglia dedita da generazioni, alla conduzione dei vigneti ed alla produzione del vino. Lui, come tanti in questo territorio, è entrato a far parte della grande famiglia Olivetti, scegliendo, dopo poco, di seguire una strada alternativa, fondando con un gruppo di amici la “Osra” una delle primissime Software House Italiane indipendenti, diventata nel corso di un ventennio una delle più importanti realtà informatiche del nostro paese. Ha girato il mondo, lo ha osservato, decidendo di dedicarsi ad una nuova avventura imprenditoriale proprio nella sua terra, ripiantando i vigneti di famiglia, acquistandone altri e destinandoli alla sperimentazione dell’Erbaluce.
Protagonista di questa esperienza è Domenico Tappero Merlo, intervenuto a Pavone nell’ambito del convegno “Accoglienza e Servizi della Imprenditoria agricola: risorse educative e turistiche”.
Sommelier, degustatore e relatore, può essere definito “Ambasciatore del territorio” passando molto tempo a parlare dei suoi luoghi d’origine.
«Volevo che l’Erbaluce fosse la mia compagna e il Carema il mio compagno – ha sottolineato – Volevo essere leale verso quel territorio che tanto mi aveva dato, e potergli in questo modo restituire qualcosa.»
L’importanza di vivere emozioni ed esperienze che andassero al di là del lusso e del prestigio. «Oggi non c’è più bisogno di mostrare chi si è e quanto si ha – ha aggiunto Tappero – ma vivere intensamente la vita lasciando un segno, specie nel proprio cuore, e nella propria anima.»
Nelle sue parole il piacere di agire con rispetto e coerenza, il desiderio di autenticità e bellezza, il ritorno all’artigianalità come cura del dettaglio, il piacere di fare bene e lasciare qualcosa, concepire la terra non come supporto, ma come organismo vivente che consente a tutto ciò che gli viene piantato di crescere meglio, la necessità di riappropriarci di quel sapere, di quella creatività che ci caratterizza nel mondo, valorizzare la nostra identità culturale, offrire qualcosa di bello e lasciare un ricordo, un’emozione, per poter sopravvivere in una società preconfezionata, dove preconfezionata risulta ormai essere anche la nostra creatività.
Per Domenico Tappero occorre innanzitutto imparare a vincere lo scetticismo ed il pessimismo: «Dobbiamo imparare dagli americani la cultura del fallimento, secondo cui un insuccesso renderà più forti nel momento in cui verrà affrontato un progetto più importante.” Insomma non essere condizionati dalle critiche o dal cosa dice la gente, ma essere leali e metterci la faccia e soprattutto credere in ciò che siamo, nella nostra italianità. «Viaggiando ho capito che l’italianità è percepita dagli stranieri come un linguaggio polisensoriale che stimola emozioni e suggestioni; Italia è cibo, vino, moda, arte; noi invece continuiamo a cercare di vendere la nostra immagine industriale quando gli altri ci percepiscono in modo diverso: per il cibo, il vino, la cultura, i luoghi, la bellezza e il paesaggio. Allora se siamo gli eredi di questa terra, perché non siamo capaci ad offrire il bello? Perché lo abbiamo dimenticato, perché il consumismo ha aggredito anche noi?»
Uno sguardo al sistema internet, che rappresenta  il mezzo attraverso il quale la gente parla di noi. Le persone, spostandosi, altro non sono che i diari dei loro viaggi: come hanno mangiato, come sono stati trattati, cosa hanno trovato. L’importante non è quanto si investe direttamente in pubblicità, ma quale è il giudizio che viene dato di me, sul mercato. Ecco che la presenza su internet serve a per capire dove sbagliamo per correggere i nostri errori. Vedere la critica come qualcosa di costruttivo,  non negativo. «Occorre conquistare la fiducia ed essere coerenti tra valori e comportamento, tra ciò che dico e quello che faccio – ha continuato – È  necessario essere se stessi, non si può avere una faccia pubblica ed una privata. Dobbiamo mostrarci a nudo, la bellezza della rete è quella che ci dice in faccia quello che non va. Lo scenario sociale attuale, sta evolvendo verso una maggiore essenzialità, dove la sobrietà è stile ed eleganza. Abbiamo un territorio in cui la tecnologia è nel nostro Dna, ma occorre fare un passo in più se si vuole fare in modo che il nostro valore sia capito altrove e spiegare come trovarci. Per arrivare nei mercati d’oriente non bisogna ragionare da canavesani ma da orientali, far sì che il nostro linguaggio venga compreso; essere il nodo di una rete e fornire in rete il proprio sapere per essere in grado di incanalare la persona.» Poi l’importanza dei giovani, pieni di passione, che collaborano senza personalismi, che non mettono il contributo come azione prioritaria, perché come sottolineato, non bisogna lavorare per arricchirsi ma lavorare affinchè la nostra idea abbia successo. «È senza strategia che non si va da nessuna parte; occorre avere un ideale e se c’è un ideale si supera anche la mancanza di denaro, che se le idee sono buone, arriverà.»
Con un gruppo di ragazzi, dal designer all’architetto, è stato avviato un progetto di comunicazione su cosa, chi giunge in un vigneto o in una stanza, voleva percepire. Concepire cioè un’idea diversa capace di essere un contenitore di emozioni. Da qui è nata ad Ivrea “Spazio Bianco”, come Camere di Cultura, un progetto di comunicazione territoriale che risponde alle esigenze di chi cerca emozioni, cultura, storia gusto. Spazio Bianco è temporaneità, evoluzione, cambiamento, sorpresa, dove ogni dettaglio comunica qualcosa, con l’originalità degli oggetti, ogni stanza racconta un tema del Canavese e artisti locali espongono periodicamente.
E la parola chiave resta il vino Erbaluce come “ambasciatore del territorio”, un prodotto che vanta un passato importante, se solo si pensa che nell’800 i migliori vini piemontesi erano quelli del territorio canavesano, e i territori raccontano la loro storia attraverso in vini.
«Quando beviamo un bicchiere di vino – ha concluso Domenico Tappero – in realtà non beviamo un bicchiere di vino, ma beviamo la storia di un territorio. In esso è stratificata una memoria, capace di creare emozioni. Ecco perché all’estero basta vedere una bandiera italiana, perché ciò avvenga. Perché nel momento in cui bevo un bicchiere di vino non bevo un semplice bicchiere di vino, ma bevo un po’ di Caravaggio, di Michelangelo, di Roma, Firenze, Venezia, bevo un po’ del nostro Canavese.»

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