Canavese: quello che è e quello che sarà – La ricerca di Aldo Bonomi (Guarda i video)

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IVREA – Torna ad Ivrea Aldo Bonomi, Presidente del Consorzio Aaster Demografia e Società, e lo ha fatto attraverso una ricerca commissionata dal Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Canavese presieduto da Lucia Lorenzi sulle prospettive di sviluppo del territorio canavesano. Titolo del convegno  che si è tenuto lo scorso 27 marzo presso l’Auditorium Mozart: “Cosa sarà – Ipotesi di futuro e scenari di sviluppo.”
“Parlo come figlio del ‘900” ha sottolineato rendendo merito ad un territorio in cui, ha continuato, “si è combattuta una battaglia storica, quella tra il Fordismo hard di Valletta (rapporto hard tra impresa e territorio) ed il “Fordismo soft” di Adriano Olivetti (rapporto soft tra Ivrea ed il territorio). Sappiamo tutti come è andata a finire; aveva vinto il “Fordismo hard” di Valletta; oggi però siamo qui a discutere che hanno perso tutti e due, ovviamente dentro mutati scenari e cambiamenti, e quando si perde bisogna incominciare a passare il testimone a chi viene dopo. Questo è il primo dato da cui partire.”
Non usa mezzi termini Bonomi nell’evidenziare che il problema dello sviluppo dei territori, dell’impresa e della coesione sociale su cui si è incentrata la ricerca e la discussione, non può più essere basato solo sulla nostalgia di un tempo passato, e con esso sulla figura di Adriano Olivetti che tanto ha dato; ma  occorre guardare oltre, e pur mantenendo memoria di quella parola chiave ‘comunità e coesione’ che Olivetti ha insegnato, si deve partire “da ciò che non è più, per dare la possibilità, collettivamente, di ragionare sul ciò che non è ancora. Credo che questo lo si debba fare non partendo semplicemente dalla nostalgia.” Insomma, secondo Bonomi,  non si può pensare di uscire dalla crisi semplicemente riproponendo un “Fordismo” che non c’è più. Marchionne non è Valletta, confrontarsi con la Fiat di Detroit è cosa diversa che negoziare con la Fiat di Agnelli che stava a Torino e aveva una sua dimensione, esattamente come non può essere riprodotto ciò che l’eredità di Olivetti ha lasciato in termini di innovazione, cultura tecnica, modelli organizzativi sul territorio. “Ora il vero problema è che non si può immettere solo una nostalgia di ciò che non è più con un modello di sviluppo di ciò che non è ancora.”
Il racconto di Bonomi è quello di un Canavese che a cavallo del nuovo secolo era ancora ritenuto un’eredità forte di ciò che era stato, con il progetto “Millenium Park“, la forza attrattiva di portare ad Ivrea pezzi del Politecnico, la telefonia che sostituiva l’informatica, la Bioindustria, senza dimenticare la “New economy”, con le grandi banche che parlavano di internazionalizzazione e dicevano di state tranquilli. Non ci si poneva il problema del ci sarà, perché era lì, afferrabile, e la celebrazione di Adriano, e del suo concetto di comunità, rimaneva come pezzo di storia del ‘900; una memoria importantissima, fondamentale. Eppure delle speranze degli anni 2000 rimane solo il Bioparco. Il parco a tema non c’è più, il Politecnico se ne è andato e pensare ancora che possa arrivare dall’esterno il nuovo Olivetti, variamente vestito, con audiovisivi o con la città della Scienza, è un’illusione. Credo che prima di ragionare sul “ci sarà” occorra fare i conti, oggi, con quello che è: un passaggio inevitabile.”
Dal tema, dunque, della demografia come modello di sviluppo o meno, a quello dei giovani, la disoccupazione, e la volontà di andare oltre i confini per un territorio in cui si fa sentire l’effetto delle metropoli di Milano e Torino quali poli a cui guardare in termini di attrazione e formazione, mentre ai tempi di Olivetti a Ivrea giungeva il meglio del design, dello studio, dei modelli organizzativi, da tutta Italia e anche dal mondo. “La società italiana – ha continuato il ricercatore – è una società che ha smarrito la propria ombra, cioè non si guarda più indietro. Dati drammatici fanno di questa questione, una questione non solo economica e sociale, ma antropologica. C’è una società vecchia e corporativa che pensa solo a se stessa.”
Tiene, comunque, quel gene dell’innovazione che in parte è rimasto; secondo i dati della ricerca gli avviamenti al lavoro, o le professioni, per il 36% sono ad elevata specializzazione. Secondo Bonomi è necessario fare i conti in maniera realistica con ciò che resta: un po’ di settore della telefonia; qualche  insediamento di gruppi esterni di cui però i quartieri generali non stanno più in Canavese;  il tessuto delle imprese che si dividono in: tessuto delle piccole e medie imprese che vanno bene perché hanno fatto internazionalizzazione, hanno mercato e hanno saputo creare delle reti lunghe. “Ma il problema restano coloro che stanno attraversando la crisi tirando il freno a mano e i naufraghi dello sviluppo.“ Occorre mettere assieme la cultura della manifattura, delle piccole, medie e anche grandi imprese, con la classe creativa. “E’ e una cosa interessante che sta avvenendo dentro le piccole e medie imprese è un intreccio inevitabile tra microimprese terziarie e microimprese manufatturiere.” Dalle interviste è emersa la volontà di prendere spunto dalle avanguardie agenti, da quelli cioè che hanno trovato una nicchia, hanno cominciato a mettere le loro competenze, i loro saperi, che in questo territorio ci sono, e sono partite da li, creando reti lunghe. “Siamo di fronte ad uno scenario di decrescita infelice o relativamente felice (recessione triste o contenuta) – ha concluso Bonomi al termine della ricerca – Secondo me l’uso del termine decrescita significa il capitalismo che incorpora il concetto del limite. Questo significa che dalla crisi ne usciremo complessivamente nella misura in cui saremo in grado di produrre con altri modelli anche ecocompatibili, di sviluppo. L’ipotesi sostenuta dai giovani imprenditori è di cominciare a fare coalizione con ciò che resta: il Bioparco, il passaggio informatica-telefonia che va mantenuto, i grandi gruppi che ancora ci sono, le avanguardie agenti operative e quel tessuto diffuso cresciuto a metà tra il terziario imprenditivo e la manifattura, alla luce certo della questione legata alla ridefinizione della Governance, del come metterci assieme. Occorre capire che è finita l’epoca della comunità gioiosa, nostalgica e rinserrata.”
Pensare al territorio non  più come un’isola felice chiusa, ma uno spazio aperto, attraversato. “Non vale più rinserrarsi, nè per quelli che pensano di farlo tenendo fuori gli immigrati, ma non vale più nemmeno il rinserramento nostalgico. Il territorio, dunque, va pensato come spazio di posizione e di rappresentazione, cercando di ricostruire, accettando il confronto generazionale, il nuovo Dna: un Dna che ricombina il terziario innovativo e creativo, ciò che resta della manifattura, e ciò che resta della tecnica, intelligenza e sapere territoriale: questo non può che avvenire anche dentro una ricombinazione generazionale.”
La necessità, dunque, di pensare ad una comunità diversa da quella di Adriano Olivetti, che non c’è più perché, ha concluso, “si è dissolta dentro la modernità. Le Comunità oggi sono un artificio, occorre costruirle pezzo per pezzo, tra generazioni, soggetti, ruoli, autonomie funzionali, unendo tra loro la comunità della nostalgia, che va rispettata; la comunità di cura cioè l’attenzione al sociale e la comunità operosa, partendo da quello che c’è, senza inventarsi nulla.
Karen Orfanelli

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